Il nostro luogo speciale

Avete anche voi un luogo del cuore? Con questo nuovo tour virtuale vi accompagneremo in un luogo speciale che in questi giorni assume un significato simbolico ancora più prezioso: la Sala delle Asse nel Castello Sforzesco. Iniziamo così, seduti sul divano, con il catalogo fra le mani.

E’ qui che negli ultimissimi anni del Quattrocento Leonardo da Vinci su incarico di Ludovico Sforza realizzò una magnifica illusione, parte di un necessario programma di legittimazione ducale da compiersi attraverso la promozione della sua immagine.

Illusione, dicevamo. Ma se pensate le prodezze di cui erano capaci i maghi della prospettiva, con Bramante in San Satiro o lo stesso Leonardo nel Refettorio delle Grazie siete sicuramente fuori strada. L’illusione a cui facciamo riferimento parlando della Sala delle Asse ha un fortissimo legame con la natura – seppur pensato nei dettagli per celebrare Ludovico – e riesce nell’intento di trasportarci in una dimensione quasi magica, regalandoci la sensazione di trovarci sotto un fresco pergolato verde di piante di gelso, pur restando al chiuso di una fortezza.

Il programma pensato da Leonardo trae spunto da diversi esempi di stanze alberate che decoravano alcun importanti dimore dal medioevo in poi. Restando a Milano possiamo  accennare a quel magnifico tesoro nascosto nelle sale di Palazzo Borromeo, in cui personaggi affrescati dal Maestro dei Giochi Borromeo agli inizi del secolo sono impegnati nel Gioco di tarocchi in una sala illusionisticamente alberata – a proposito, vi piacerebbe visitarla con noi?

Come potrete immaginare però Leonardo fece scuola anche in questo caso, e dopo la Sala delle Asse furono diversi gli esempi che ne imitarono le caratteristiche: sempre restando nei dintorni di Milano ricordiamo le decorazioni cinquecentesche della Sala del Priore nell’Abbazia di Viboldone – un altro luogo in cui vi accompagneremo prestissimo.

La storia della sala e la sua conservazione

Ma ritorniamo a Leonardo, a Ludovico e alla storia piuttosto travagliata di questo capolavoro. Risalgono al 1497 i primi progetti per la decorazione del soffitto della vasta sala alla base della Torre del Falconiere, nell’angolo nord-orientale del Castello Sforzesco, una sala già all’epoca chiamata “delle asse” per i rivestimenti lignei che coprivano le pareti garantendo l’isolamento termico, e i cui lati, pensate, superano i quindici metri di larghezza. I lavori iniziarono soltanto nella primavera del 1498 e appena un anno dopo il duca fu costretto alla fuga dai francesi con il conseguente e definitivo abbandono del programma decorativo.

Ludovico aveva perso tutto, “lo stato, la roba e la libertà e nessuna opera si finì per lui”. Dal 1499 ad oggi la sala subì numerose vicissitudini: a partire dallo stato di decadenza in cui versava già nei primi anni del Cinquecento con la conseguente ridipintura a calce bianca – totale o parziale è difficile dirlo – che ne compromise la leggibilità, fino alla riscoperta delle decorazioni ad opera del nostro amato Luca Beltrami e di Paul Müller-Valde nel 1893. Seguirono i tentativi di recupero, con le ridipinture in chiave novecentesca ad opera di Ernesto Rusca nel 1902 – ancora visibili in alcune porzioni del soffitto – e gli interventi di restauro degli anni Cinquanta che ci restituirono il meraviglioso monocromo della parete nord. Arriviamo finalmente ad oggi, con la recente campagna di restauro e le relative indagini diagnostiche i cui esiti sono ormai noti: le tracce dei meravigliosi e inediti schizzi di mano leonardesca rinvenuti sotto l’intonaco delle pareti, e mostrati al pubblico nel corso della riapertura straordinaria dei mesi appena passati in occasione delle celebrazioni per il cinquecentenario dalla morte del genio toscano.

Quando Ludovico divenne “Il Moro”: il duca e le more di gelso

Ora torniamo a noi, al nostro luogo del cuore e al significato che questa sala assume oggi, durante una quarantena che pare infinita e in cui, fra le nostre quattro mura domestiche, ci capita di viaggiare con la fantasia verso spazi aperti. Leonardo ci venne in soccorso, ricreando in tempi non sospetti un pergolato di piante di gelso – i “moroni”, così venivano chiamati nel dialetto locale – attraversato da un’unica corda d’oro che si articola nei bellissimi intrecci leonardeschi.

La scelta non fu casuale. C’era da celebrare un duca, ricordate? Ludovico aveva necessità di legittimare la sua posizione, indebolita dalla morte della moglie Beatrice e dai diritti rivendicati dai francesi, che di lì a poco avrebbero costretto il duca alla fuga. Ludovico Sforza, figlio di Francesco, era noto ai milanesi con un sopranome con cui veniva acclamato dalla folla al suo passaggio: “Moro! Moro!”.

Fu proprio sua madre, Bianca Maria Visconti, a chiamarlo così per la sua carnagione scura: “Ludovicus maurus filius quartus masculus”, “il più sozo di tutti gli altri” (carina, vero?). Fu così nel 1461, con l’annuncio della sua nascita, Ludovico Sforza divenne Ludovico il Moro, e questo nome divenne la sua insegna.

Parliamo ora del morone, frutto della pianta del gelso, la cui coltura era stata incrementata da decenni nei dintorni di una Milano ormai nota per la produzione di velluti e broccati di qualità eccelsa, la cui seta veniva prodotta in gran quantità grazie alle foglie di gelso, nutrimento dei bachi. Il gelso, acclamato da Plinio il Vecchio come “la più saggia tra le piante”, tanto forte e resistente da sopravvivere alle gelate invernali, albero le cui radici sarebbero in grado di crescere fra la rocce più dure. Quel gelso, con le sue fronde e i frutti magnificamente dipinti da Leonardo sull’intera volta della sala, le cui radici sono state rappresentate nei disegni a monocromo a sottolineare ulteriormente la forza del duca.

Vi abbiamo accompagnato qui oggi, in un tour che per lungo tempo resterà virtuale, anche alla fine della quarantena. Il motivo è semplice: la ricerca di tracce leonardesche non è conclusa, e i restauri dell’intera sala sono destinati a durare per anni.

Nell’attesa, non finiremo mai di raccontarvi con piacere di questo luogo meraviglioso, dove potremo rifugiarci in vostra compagnia, anche se solo virtualmente, ogni volta che lo desideriamo.